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WALTER TROUT

UN REDUCE DEL BLUS-ROCK

È confortante ritrovare chi non si arrende e anche di fronte a difficoltà che paiono insormontabili, continua a lottare. “O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per mori- re” – diceva Tim Robbins nella parte di Andy, protago- nista nel film “Le ali della libertà”, in un celebre dialogo sulla speranza. E continuare a fare musica non è stato semplice, nemmeno per Walter Trout, che ascoltiamo in questo disco riappropriarsi

del suo linguaggio preferito in un crescendo che, all’indomani di un trapianto di fegato che gli aveva compromesso anche delle funzioni cerebrali, si è progressivamente ripreso, riconquistando pure la libertà di far musica. Un problema di alcuni anni fa e un passato con cui fare i conti, tra drammi personali e familiari, prima che la pandemia aprisse ancora un altro varco sul bara- tro e avrebbe chiamato ciascuno ad attingere ad un surplus di energie, rispetto alla quotidianità abituale. Los Angeles non sembrava più ac- consentire a qualsiasi possibilità per gli eventuali contagi tra milioni di

persone nella metropoli e un buon ritiro nella cittadina danese della sua compagna, lo ha rassicurato, nonostante la forzata inattività del confi- namento. L’esercizio musicale è stato così per Trout l’obiettivo per so- pravvivere a ogni giorno, fino al ritorno alla città californiana dove, dalle solitarie stanze domestiche allo studio, hanno trovato sbocco le nuove canzoni di “Ride”. – “Ho passato molto tempo a piangere” – dice on line su di sé – “perché avrei scavato nel mio nucleo emotivo. Voglio che le mie canzoni abbiano una sorta di verità in loro”. Un disco che chitarristi- camente allora non tralascia lo stile dell’ex – bluesbreaker, solista dagli anni Novanta, e trasuda una carica dirompente come di una locomotiva che invita alla fuga; nella scrittura, un tema portante della title-track attorno a cui ruota anche il resto dell’album, carico di aspetti personali e di sincero autobiografismo, tra fantasmi del passato, introspezioni pre- senti e sguardi futuri. Non a caso è “Ghosts” ad aprire le danze di un rock-blues torrenziale, circoscritto ad un genere rappresentativo del chitarrista del New Jersey e di tutta una schiera di guitar – hero tra cui a volte non è facile distinguersi. Trout lo fa con un appeal testuale, coniu- gandolo con un’affermazione della sua identità musicale nel gergo che gli è più consono, costruendo un momento riflessivo, tra canzoni attorno ai suoi settant’anni. Come un giro nella notte di un taxi – driver è per esempio l’incedere ruvido tra i tristi addii di “So Many Sad Goodbyes”, così come potente anche vocalmente è “High Is Low” e classicissimo, invece, è uno slow come “Waiting For The Dawn”, che non poteva man- care. Sono le storie dietro le canzoni però, più che le canzoni stesse, a fare di “Ride” un lavoro intenso. E anche luminose ballad stradaiole come “The Fertile Soil” quanto gli umori notturni della dura “Hey Mama”o la dolcissima “Destiny”, in chiusura, non restano altro che l’im- marcescibile testimonianza di un reduce del rock-blues.

Matteo Fratti

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